Ho avuto il piacere di conoscere Dordoni quando era referente
della marcia nazionale.
Ero in compagnia
di Antonio La Torre e Raffaello Ducceschi. A parte la signorilità del
comportamento mi ha sorpreso una sua dichiarazione: se è difficile insegnare la
marcia figuriamoci un lancio. Poi a Sesto sono sempre venute in occasione del 1
maggio la moglie e la figlia dopo la sua morte. Anche loro molto
discrete.
A Sesto è stato
doveroso intitolare l’impianto di Atletica a Lui.
Pino Dordoni, un atleta
amato e celebrato, in tutta Italia, con titolazioni di vie e impianti sportivi.
Ricordato come il più elegante dei marciatori di ogni epoca, ha sempre difeso i
suoi ideali, anche non sportivi, venendo rispettato e onorato anche da chi la
pensava in maniera diametralmente opposta.
“Il giudice era Libotte. Sai, Armando
Libotte, quello che organizzava la 100 km del Canton Ticino. Lo conoscevo bene,
eravamo amici. E quando comincio a inquadrare la torre dello stadio, gli dico:
senti, Armando, ti dispiace tenermi gli occhiali scuri e il berrettino? Non si
può mica vincere l’Olimpiade a capo coperto e con gli occhiali sul naso. E poi,
già che ci sei, prestami anche il pettine che voglio rendermi presentabile“.
“E’ stato allora che i fotografi e i
cineoperatori si sono scatenati per riprendere la scena. Figurarsi, uno che
marcia e si pettina. E quelli arrivati in ritardo mi dicevano, repeat, again,
fallo di nuovo. E io un volta ci sono stato, poi ho detto basta: ragazzi, non
voglio mica perdere la medaglia d’oro per voi. Dolezal era un vecchio
cagnaccio. Otto minuti avevo su di lui e vinsi per due”.
E questo
era il ricordo che Pino Dordoni riservava agli amici, il
ricordo del 21 luglio 1952 quando
si trasformò in un’icona, un’icona vera, mica quelle figurine che affollano lo
schermo del computer: il viso ispirato, trasfigurato, mentre, nello stadio di
Helsinki, taglia il traguardo della 50 km di marcia e diventa una delle
immagini della storia dello sport azzurro, una di quelle che non sbiadiscono.
E rievocando andava via tutto
d’un fiato, una parola dopo l’altra, come i passi lungo i viali alberati, sulla
Mannhereimer, a calpestare i binari del tram, senza un’occhiata per i laghetti,
per la mole bianca di Finlandia, per le betulle.
Un lunedì di pioggerella fine che
odorava d’autunno fu il suo giorno, il giorno della prima medaglia d’oro della
spedizione italiana “tanto che divenni il cocco di Giulio Onesti. Poi venne
l’oro di Irene Camber nel fioretto, ma a rompere il ghiaccio toccò a me e per
qualche giorno ebbi tutti gli onori, persino una macchina a disposizione”.
“Ma l’omaggio più vero, più sincero,
inaspettato me lo regalarono i russi: era la prima volta che venivano ai Giochi
e non erano nemmeno nel nostro villaggio. Noi stavamo a Kapyla, in un blocco di
case popolari, loro ad Otaniemi, nella foresta. Il giorno dopo la vittoria,
andai da uno di loro, un amico. Gli altri erano sul cancello, applaudivano, e
io chiesi: chi applaudono? Applaudono te, mi rispose”.
Perchè Pino era Mister Walking,
il Signor Marcia, perfetto, impeccabile in uno stile diverso rispetto a quello
d’oggi, stravolto dalle frequenze febbrili, dalle ampiezze sempre più ridotte,
dal doppio appoggio che chissà, dal bloccaggio che boh.
Campione d’Europa nel ’50
all’Heysel di Bruxelles, sull’esito dei Giochi Dordoni aveva pochi dubbi, una
convinzione maturata durate il lungo viaggio verso il Nord e Suomi.
“Un viaggio eterno: 58 ore di treno da
Milano. E poi piombarono i vagoni, sì, misero gli schermi di lamiera sui
finestrini: stavamo per passare nella zona dell’istmo di Carelia, occupato dai
sovietici”.
“Più di
due giorni avevo avuto dalla Centrale alla stazione di Helsinki per riflettere.
Ero convinto di essermi lasciato alle spalle tante migliaia di chilometri per
un solo scopo: vincere”.
“Non
avevo un dubbio, ero il più forte. Solo un timore: i piedi, che non è una roba
da ridere per uno che marcia. Negli ultimi allenamenti, a Piacenza, avevo
rinunciato a usare le mie scarpette da gara. Erano guanti, non volevo usurarle
ed erano le uniche che avevo. Oggi quelli forti ne hanno anche otto paia”.
“Così
calzai quel che trovai, un paio di scarpe da basket, con il puntale in gomma.
Mi rovinai le unghie degli alluci e Giorgio Oberweger, il ct, prese il toro per
le corna, lui era fatto così: prima che partissimo mi portò da un medico
milanese che me le estirpò”.
“Così
partii per l’Olimpiade con una fasciatura e con u’infezione che pulsava. Ma
quel giorno, al 35° chilometro, quando diedi lo scossone decisivo, dimenticai
di essere il padrone di quelle dita disastrate”.
Via, composto, senza mai rischiare
l’ammonizione. In quei momenti sparivano il dolore e le traversie di
un’esistenza condotta con la fierezza dell’integralista, con la testa e il
cuore a invitto.
Perché Pino non ha mai nascosto e
non ha mai smesso di ripetere che lui era da quell’altra parte, anche dopo il
25 aprile “quando
l’Italia si popolò di partigiani”.
Lui a diciott’anni volontario
nella Guardia Nazionale Repubblica, lui con quelli di Salò. E dopo la
Liberazione, prigionia nel campo di Edolo e poi a Tombolo, nella pineta frequentata
dalle “segnorine” che andavano con gli americani .
“E a novembre del ’45 a casa, a
Piacenza. Per finire a sbattere in vecchi amici che non salutavano, per
sentirsi rispondere che lavoro non ce n’era. Ne rimediai uno un paio d’anni
dopo: fattorino all’Associazione Commercianti, 27.00 lire al mese, meglio che
niente. A scaldarmi la vita c’era la marcia. Ma c’erano anche le delusioni: a
Londra ’48 fuori nelle batterie dei 10 chilometri, troppo corti per me”.
Con lo sport non è diventato
ricco: “Quando,
dopo Helsinki, il Coni mi diede la possibilità di scegliere – un medaglione
d’oro o il corrispettivo in soldi, 700.000 lire – non ebbi un’esitazione: presi
il denaro”.
E alla fine del racconto c’era
sempre un sorriso beffardo, lo stesso che non ammainò anche quando gli dissero
del cancro che portava addosso e dentro, e che uccise il Cavaliere nell’ottobre
del ’98.
Qualche giorno prima erano andati
a fargli visita Maurizio e Giorgio Damilano. “Stai forte, Pino, che tra qualche
giorno ripassiamo”.
Ripassarono per il funerale e
Maurizio distillava i ricordi: “Un lontano allenamento in Messico, per
far riserva di ossigeno, io e Giorgio giovanissimi e lui ogni giorno a inventar
qualcosa perché l’allenamento apparisse meno severo. Al mio fianco per l’oro di
Mosca, al mio fianco sempre”.
E Pamich, scabro, quasi pietroso,
disse solo una cosa: “Abbiamo passato una vita gomito a
gomito e altro non so dire”.
A Sesto
San Giovanni, vecchia roccaforte rossa, Stalingrado d’Italia, hanno chiamato con il suo nome il campo dove Antonio La Torre ha cresciuto
Ivano Brugnetti, dove Pietro
Pastorini allenava
Michele Didoni. Lui ne sarebbe stato felice.